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Investimenti PNRR, un argine alla recessione?

C’è ottimismo sulle prospettive di crescita dell’Italia nel prossimo anno; ma vanno rispettate le scadenze del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Quali sono i prossimi passi da fare? Come sarà l’evoluzione del programma economico e tecnico per l’attuazione del Piano?

Nella seduta di giovedì 20 aprile la Camera ha approvato in via definitiva la legge di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 13/2023, recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e del Piano nazionale di investimenti complementari al PNRR nonché per l’attuazione delle politiche di coesione e della politica agricola.

È legittimo chiedersi se sia ragionevole aumentare ulteriormente il nostro già enorme debito pubblico, solo per ricevere in modo completo i trasferimenti a fondo perduto insieme ai prestiti. Molti fondi sono stati stanziati per promuovere la digitalizzazione del settore pubblico, della giustizia e del settore finanziario, mentre altre misure appaiono meno sensate, come i treni a idrogeno o l’impegno a piantare alberi. Inoltre, la mancata emanazione dei bandi comunali per gli asili nido sta aumentando la povertà infantile e ostacolando ulteriormente l’occupabilità femminile.

Sebbene si possano attribuire le tempistiche contingenti imposte dalle procedure europee, è giusto dubitare che i Ministeri abbiano inserito nel Piano proposte che erano state accantonate per lungo tempo. Questi impegni erano stati considerati non prioritari in passato e improvvisamente sono diventati rilevanti solo per giustificare la richiesta di quasi 200 miliardi di euro, senza essere considerati veramente strategici.

Abbiamo, cioè, invertito la logica: anziché partire dalle opere necessarie e conseguentemente chiedere i finanziamenti, siamo partiti dai soldi disponibili e abbiamo cercato di compilare una lista sufficientemente lunga. Senza riuscire a dare qualità agli investimenti ma solo quantità delle risorse mobilitate, senza alcun riguardo alla spesa di oggi che sono le tasse di domani e spesa corrente futura sulle spalle dei nostri giovani.

È imprudente fare previsioni se non altro perché, complice l’incertezza dovuta alla guerra in Ucraina, un po’ tutti hanno sbagliato le previsioni di crescita per l’anno in corso: a inizio anno si prevedeva una crescita di +2,7 per cento e abbiamo finito il 2022 con +3,9 per cento, molto meglio della Germania e anche della Cina.

Nonostante abbiamo speso molto meno di quanto originariamente previsto per il PNRR, la crescita economica è stata superiore di oltre un punto percentuale. Attualmente, l’unica fonte di riferimento per la spesa finanziaria è rappresentata dai numeri riportati dalla Corte dei Conti: l’Italia ha speso soltanto 23 miliardi dei 120 miliardi di dotazione, ma senza considerare i crediti d’imposta, la spesa scende a 10 miliardi. Ci sono stati enormi ritardi nella selezione dei bandi dei comuni, soprattutto nelle zone del sud e per quanto riguarda l’infanzia. Inoltre, siamo in ritardo sia nella selezione dei candidati per i concorsi, sia per le rinunce, causati dal problema di partenza dei contratti a tempo determinato e dei compensi troppo bassi.

Ancora: il Governo ha varato il nuovo Codice degli Appalti Pubblici, ma le semplificazioni chiedono di estendere il meccanismo a tutti i fondi del PNRR; l’inflazione ha cambiato di molto la spesa per le materie prime e a ciò sono legati appalti e cantieri. Importante è anche il problema degli anticipi perché le imprese che si aggiudicano gli appalti possono chiedere anticipi fino al 30% per la realizzazione delle opere, ma gli acconti del MEF si limitano al 10%; e crea un problema di liquidità alle aziende.

Per il monitoraggio del PNRR, il sistema Regis era stato progettato per seguire e verificare lo stato di attuazione del piano, ma il problema è che ogni Ministero ha adottato il proprio metodo e tutto deve ancora essere armonizzato. Nonostante la decisione di centralizzare la gestione del PNRR a Palazzo Chigi e l’architettura tecnica al Ministero dell’Economia, i problemi di collaborazione non sono stati risolti e l’attuazione risulta essere più difficile del previsto.

Il rapporto con l’Unione Europea è molto delicato a causa dei dissidi sulla Direttiva sulla liberalizzazione dei servizi, in particolare per quanto riguarda i servizi balneari, che complicano i rapporti e non favoriscono la concordia. Attualmente, viviamo un momento politico particolarmente teso, con problemi legati all’immigrazione e ad un sistema sanitario sotto pressione. Inoltre, il mondo della scuola e dell’università è attraversato da tensioni, soprattutto a causa della mancata riforma delle strutture di accoglienza degli studenti.

Abbiamo iniziato il 2023 prevedendo una crescita modesta dello 0,6 per cento ma c’è la grande incognita dei prezzi dell’energia. L’anno scorso la crescita italiana ha tenuto anche meglio del previsto grazie ai consumi privati che hanno potuto godere dei grandi risparmi accumulati nell’epoca del Covid: gli italiani (non tutti, ma una gran parte) hanno speso quello che avevano forzatamente risparmiato nell’anno del lockdown. Ma ora i salari reali sono crollati per via dell’inflazione e sono di questi giorni i dati ISTAT sui consumi calati, perché evidentemente i risparmi delle famiglie non ci sono stati.

Negli ultimi anni, la manifattura italiana (compresa quella delle costruzioni) ha avuto una performance ancora migliore di quella tedesca. Tuttavia, nel 2023 il rialzo dei tassi di interesse potrebbe rappresentare una sfida per gli investimenti privati, e la questione del bonus edilizio ha frenato le commesse. Ci chiediamo se l’aumento dei tassi di interesse potrebbe spingere gli italiani e gli stranieri ad acquistare i titoli di Stato, visto che la Banca centrale non li acquista più. Sono previste emissioni per un totale di 94 miliardi di euro, con la Banca centrale che per la prima volta li venderà invece di acquistarli.

In Italia non possiamo seguire l’esempio della Germania con il PNRR. Infatti, la loro spesa è destinata a compensare famiglie e imprese per i costi energetici elevati, non per investimenti. Inoltre, il loro PNRR, che è destinato solo agli investimenti, è un programma molto più piccolo rispetto al nostro.

Noi, invece, in Italia non possiamo ricorrere alla spesa corrente ma dobbiamo solo affidarci alla spesa per investimenti del PNRR. Il Governo ha scommesso su un deficit al 4.5 per cento nel 2023 (in salita da un tendenziale che era al 3.4 per cento) ed è proprio quello il livello massimo possibile di deficit che ancora consente di tenere il debito/pil costante al 145 per cento.

Nel 2023, è previsto che il PNRR spenda 40 miliardi di euro, il che rappresenta oltre il 2% del PIL e dovrebbe essere più che sufficiente per sostenere l’economia. Tuttavia, è importante lavorare sodo per ottenere il massimo da queste risorse. La polemica strumentale sulle spese del PNRR del precedente governo è inutile, poiché gli obiettivi del piano non sono legati soltanto alla spesa.

A differenza dei fondi europei ordinari, la Commissione UE non richiede le fatture di spesa per procedere ai rimborsi, ma chiede di rispettare gli obiettivi concordati ogni sei mesi in termini di risultati, come la pubblicazione dei bandi, l’approvazione di norme e, ora, anche l’aggiudicazione di appalti. Molte delle spese mancate nel 2022 saranno trasferite automaticamente nel 2023. Solo per le ferrovie, il PNRR prevede una spesa di 3,8 miliardi di euro nel 2023, su un totale di 6,4 miliardi destinati alle infrastrutture e ai trasporti.

Le spese almeno delle ferrovie sono pressoché certe. In più l’aggiudicazione degli appalti ha una forte accelerazione nell’ultimo semestre, quindi è probabile che la spesa effettiva per le opere si vedrà già prossimamente. L’accelerazione nelle aggiudicazioni ha avuto anche una ragione tecnica: per usufruire del fondo da 10 miliardi per la compensazione dell’aumento dei prezzi previsto per le opere PNRR le stazioni appaltanti dovevano aver pubblicato i bandi entro la fine dell’anno. È normale che molte stazioni appaltanti si siano affrettate: avere accesso al fondo era condizione necessaria per aprire una gara con dei prezzi a base d’asta appetibili.

(fonte: Ipsoa)

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