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Certificazione della parità di genere, divario nord-sud e incentivi

L’attestazione (su base volontaria) per le aziende che adottano azioni mirate a ridurre il gap di genere, è prevista dal Pnrr.

I 5,5 milioni di euro di finanziamenti che verranno assegnati hanno l’obiettivo di sostenere le piccole e medie imprese nell’ottenere la certificazione di parità di genere e di rafforzare l’implementazione di questa certificazione all’interno del nuovo Codice degli appalti, che entrerà in vigore il 1° luglio. Questi rappresentano gli ultimi due passi nel percorso verso la certificazione di parità, che è iniziato meno di un anno fa. La certificazione di parità è un’attestazione volontaria per le aziende che adottano azioni mirate a ridurre il divario di genere. Questa certificazione è prevista dal Pnrr ed è stata introdotta nel nostro sistema giuridico dalla legge 162/2021. La legge prevede anche un incentivo contributivo, pari all’1% e fino a un massimo di 50.000 euro all’anno per il 2022.

L’ingresso delle donne nell’economia e nella vita sociale attraverso l’inclusione nel mondo del lavoro è da sempre un punto debole dell’Italia. Il tasso di occupazione femminile è inferiore di 18 punti percentuali rispetto a quello maschile, con disparità tra le diverse regioni. Una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro può essere incentivata anche attraverso politiche adeguate all’interno delle aziende, che gestiscano le differenze di genere, promuovano la conciliazione tra vita familiare e professionale e garantiscano la tutela della maternità e il mantenimento del posto di lavoro anche dopo la nascita dei figli.

Nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), sono stati destinati dieci milioni di euro per il sistema di certificazione della parità di genere. Questo sistema è stato avviato il 1° luglio 2022 con la pubblicazione del decreto attuativo (del 29 aprile 2022). La certificazione viene rilasciata alle aziende da organismi accreditati, seguendo gli obiettivi definiti dalla prassi Uni/PdR 125:2022, che copre sei aree tematiche: cultura e strategia, governance, processi HR, opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, equità retributiva tra i generi, tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

Secondo il Dipartimento per le Pari Opportunità, finora 305 imprese hanno ottenuto la certificazione di parità di genere. I dati forniti da Accredia, l’ente italiano di accreditamento responsabile di autorizzare gli organismi a rilasciare la certificazione, indicano che l’attestato è stato assegnato a oltre 1.300 sedi aziendali o siti produttivi. In altre parole, una banca, una catena di negozi o un’azienda con diverse filiali possono richiedere la certificazione non solo per la sede centrale, ma anche per singole filiali o siti produttivi sul territorio.

Attualmente, sono 34 gli organismi accreditati per rilasciare la certificazione alle aziende, mentre altri 13 hanno presentato domanda e sono in attesa di risposta.

Gli incentivi.

Per agevolare le piccole e medie imprese nell’ottenere la certificazione di parità di genere, saranno destinati 5,5 milioni di euro dei 10 milioni totali previsti dal Pnrr per l’intero sistema. Questi fondi verranno utilizzati per erogare contributi alle PMI che ottengono la certificazione, fino a un importo massimo di 12.500 euro comprensivo di IVA. Gli aiuti saranno distribuiti in base al numero di dipendenti e al numero di giornate di audit necessarie per il rilascio dell’attestazione. Tuttavia, le risorse non verranno versate direttamente alle aziende, ma saranno rimborsate agli organismi di certificazione come compenso per il lavoro svolto.

A tal proposito, il Dipartimento delle Pari Opportunità ha già pubblicato un primo bando per raccogliere, entro il 30 giugno, le candidature degli organismi accreditati interessati a partecipare al programma di agevolazioni per le micro, piccole e medie imprese previsto dal Pnrr. Questi organismi saranno inseriti in un elenco apposito (già aderenti sono 24) e la gestione di tale elenco sarà affidata a Unioncamere. Quest’ultima supporterà anche il Dipartimento nella gestione dei pagamenti per i costi di certificazione della parità di genere di almeno 450 PMI. Inoltre, fornirà assistenza tecnica e accompagnamento alla certificazione per altre mille imprese, con l’obiettivo di raggiungere tali traguardi entro giugno 2026.

Infine, una recente modifica al Codice degli appalti, appena entrata in vigore, lega i premi assegnati alle aziende dalle stazioni appaltanti alle politiche a favore della parità di genere alla certificazione rilasciata da un ente accreditato, come previsto dalla legge 162/2021.

Occupazione: divario uomo-donna al Sud oltre il 20%.

In Italia esiste un divario del 18% tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile. Secondo i dati del 2022, il 69,2% degli uomini tra i 15 ei 64 anni era impiegato, rispetto al 51,1% delle donne nella stessa fascia d’età. I dati più recenti diffusi dall’Istat per il 2023 mostrano un divario leggermente ridotto: ad aprile, il tasso di occupazione maschile era al 69,8%, mentre quello femminile era al 52,3% (-17,5%).

Tuttavia, questa situazione presenta variazioni significative a livello territoriale, come evidenziato dai dati elaborati dalla Fondazione Leone Moressa per Il Sole 24 Ore (riferiti al 2022). Il divario è inferiore alla media nelle regioni del Centro e del Nord Italia, mentre supera il 20% in Molise, Abruzzo, Calabria, Sicilia, Campania, Basilicata e Puglia (in queste ultime tre regioni, la differenza supera il 25%). È importante notare che anche il tasso di occupazione maschile in queste regioni è ben al di sotto della media nazionale, ad esempio in Calabria è del 55,3%.

Un fattore che influisce negativamente sul tasso di occupazione femminile in Italia, più che in altri paesi europei, è il numero di figli. Esiste un effetto maternità, che comporta una riduzione del tasso di occupazione delle donne all’aumentare del numero di figli. In Italia, considerando le donne tra i 25 e i 54 anni, il 62,6% di coloro che non hanno figli è occupato. Con il primo figlio, il tasso di occupazione scende al 60,6%, con il secondo figlio scende ulteriormente al 56,7%, mentre con il terzo figlio si riduce al 41,1%. Ciò significa che solo quattro donne su dieci con tre o più figli riescono a mantenere un’occupazione lavorativa, mentre le altre no.

In altri paesi europei, come la Germania o la Francia, i figli hanno un impatto sul tasso di occupazione femminile, ma il calo più significativo si verifica a partire dal terzo figlio.

Il confronto con l’Europa.

In Italia, i posti di lavoro persi dalle donne durante gli anni della pandemia sono stati recuperati. Ad aprile, il numero di donne occupate era di 9,9 milioni, superando i 9,77 milioni del 2019. Inoltre, il tasso di occupazione femminile ha superato la soglia psicologica del 50%. Nonostante questi dati positivi, l’Italia rimane ancora indietro in Europa per quanto riguarda l’accesso delle donne al mercato del lavoro. “L’Italia si trova all’ultimo posto per l’occupazione femminile nell’Unione europea, superata anche dalla Grecia”, afferma Chiara Tronchin, ricercatrice della Fondazione Leone Moressa. “I paesi con il maggior numero di donne occupate sono i Paesi Bassi, con un tasso di occupazione femminile compreso tra il 15 e il 64 anni del 78,1%, l’Estonia con il 75,3% e la Svezia con il 74,7%. Sono paesi in cui vi è una maggiore condivisione dei carichi familiari tra i genitori e dove esistono politiche e strumenti di conciliazione tra vita personale e professionale più forti”.

In alcuni paesi, invece, la differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile è quasi inesistente. In Finlandia, ad esempio, è dello 0,8%, mentre in Lituania è dello 0,3%.

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